Monta lo scandalo nel nord Italia allegato alle riproposizioni della notizia in questione, da parte di gruppi meridionalisti e di orgoglio neoborbonico; tutti intenti a rimarcare fatti per lo piu’ tacitati ma ugualmente umilianti, che coinvolgono il settentrione italiano. Infatti sono state da poco trovate tracce di Pfas in 11 campioni di acqua sui 31 raccolti in fontane pubbliche, parchi giochi e scuole primarie della Lombardia”. Lo riporta il Fatto quotidiano con Luisiana Gaita.

Dei trentuno campioni di acque potabili provenienti da diversi comuni lombardi, undici (circa il 35%) rivelano la presenza di Pfas, composti poli e perfluoroalchilici, sostanze pericolose utilizzate in industria che, chiamate ‘forever chemicals’ per la loro lunga persistenza nell’ambiente, sono associate a numerosi problemi per la salute, tra cui alcune forme di tumore. E si tratta di campioni per la maggior parte raccolti da fontane pubbliche, spesso in parchi giochi o nei pressi di scuole primarie, dunque in ‘punti sensibili’ per la presenza di bambini. A maggio 2023, il responso delle analisi eseguite dalle autorità competenti sulla concentrazione di Pfas nell’acqua destinata a uso potabile in Lombardia,  ha stimolato Greenpeace intenta a fare proprie anamnesi presso un laboratorio indipendente. Tra il 12 e il 18 maggio 2023, abbiamo raccolto 31 campioni di acqua potabile nelle dodici province della Lombardia, successivamente analizzati da un laboratorio indipendente, per monitorare la situazione attuale della contaminazione da PFAS (composti poli e perfluoroalchilici), ribadiscono dalla Ong ambientalista. I PFAS sono un ampio gruppo di sostanze chimiche di sintesi (oltre 10 mila), prodotte dalle industrie: anche per questo diversi Stati in Europa hanno deciso di chiederne la messa al bando. 

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Le analisi che hanno rilevato la presenza di PFAS in 11 campioni su 31, pari a circa il 35% del totale, tangono le province di Bergamo, Brescia, Como, Milano, Lodi, Varese.

In 4 casi si e’ riscontrato una contaminazione da PFAS superiore al limite della Direttiva europea 2020/2184, pari a 100 nanogrammi per litro. È avvenuto:

  • a Crespiatica e Corte Palasio, entrambi in provincia di Lodi (rispettivamente 1.840 ng/l e 104 ng/l per la somma di PFAS);
  • Caravaggio e Mozzanica, in provincia di Bergamo (rispettivamente 132 ng/l e 116 ng/l per la somma di PFAS).

I restanti 7 campioni lombardi risultati contaminati provenivano da:

  • Pontirolo Nuovo (Bergamo), con concentrazioni pari a 12 ng/l
  • Mariano Comense (Como), con concentrazioni pari a 54 ng/l
  • Capriolo (BS), Somma Lombardo (VA), Mariano Comense (CO), via Civitavecchia e via Cusago a Milano, con concentrazioni superiori ai valori più cautelativi per la salute umana vigenti in Danimarca o proposti negli Stati Uniti

In quasi tutti i casi, i risultati delle nostre analisi confermano le criticità già evidenziate dai  dati ottenuti proprio dai gestori privati e pubblici la scorsa estate, rimarcano da Legambiente.

“A seguito delle analisi, abbiamo presentato sei esposti destinati alle Procure lombarde di riferimento per chiedere di individuare le fonti inquinanti, bloccare l’inquinamento e adottare misure per impedire che la popolazione beva acqua contaminata da PFAS. I campioni che abbiamo raccolto provengono per la maggior parte da fontane pubbliche, spesso ubicate in parchi giochi o in prossimità di scuole primarie: si tratta di “punti sensibili” perché i minori potenzialmente esposti alla contaminazione sono soggetti a maggior rischio.

Le concentrazioni elevate riscontrate in alcuni comuni richiedono un intervento immediato: lo scorso luglio, per esempio, a Montebello Vicentino (in provincia di Vicenza) la presenza di valori superiori a 100 nanogrammi per litro ha portato a sospendere per alcuni giorni l’erogazione dell’acqua potabile al fine di evitare rischi per la salute. 

Sono necessarie campagne di monitoraggio capillari e periodiche sulle acque potabili, basate sulla trasparenza e la condivisione dei dati con la cittadinanza, per limitare la presenza di PFAS, tutelare l’ambiente e la salute dei cittadini.

Se vogliamo bloccare l’inquinamento all’origine, dobbiamo vietare l’uso e la produzione di tutti i PFAS su tutto il territorio nazionale! Rincarano gli ambientalisti estremi, tuttavia scarseggiano le risorse per puntuali e capillari verifiche e messa a norma, relativi i sistemi idrici di tutta Italia.

L’Istituto superiore di sanità ha reso pubblica uno studio che denuncia l’inquinamento, risalente al 2007, delle acque dell’acquedotto nella zona di Pescara. Si parla di 700mila consumatori, non adeguatamente informati, che hanno fatto uso dell’acqua pubblica con un “pericolo significativo e continuato per la salute della popolazione esposta agli inquinanti attraverso il consumo e l’utilizzo delle acque”. Dal 2007 in poi l’acqua dei rubinetti non è più contaminata, in seguito alla chiusura dei pozzi che avevano fatto entrare le acque inquinate delle falde profonde fino all’interno dei condotti dell’acqua pubblica.

“È un inquinamento iniziato nei primi anni del Novecento”, ha spiegato a Wired.it il direttore tecnico dell’Arta Abruzzo Giovanni Damiani, “ed è l’intero polo chimico della zona prossima alle Gole di Popoli che ha contaminato nel corso di un secolo l’ambiente, le acque superficiali, i suoli e le acque di falda profonde che, solo per un periodo, sono confluite anche nell’acquedotto”.

Ma come è possibile che, a partire dal polo chimico e dalle discariche – prima fra tutte quella  di Bussi sul Tirino, 50 chilometri a sud-ovest di Pescara – le sostanze inquinanti abbiano raggiunto i rubinetti di case, ospedali e scuole della città? “I due centri abitati di Chieti e Pescara sono ormai senza soluzione di continuità, con un’edificazione continua e, di fatto, un’urbanizzazione unica. Tutto questo, unito all’incremento demografico ed alle esigenze turistiche, ha richiesto un’incremento dei quantitativi di acqua. Di conseguenza è stato necessario scavare dei pozzi, che in particolare sono stati realizzati nel comune Castiglione a Casauria. I pozzi erano profondi circa 100 metru e si trovavano proprio sotto la corrente della falda profonda”.

Urge un piano di messa a norma d’Italia, da punto di vista idrogeologico, che comporta investimenti maggiori della cifra stanziata con il Pnrr.

Anni di acque pubbliche contaminate, popolazione non informata e inquinanti diluiti illegalmente, hanno sfrisato l’Abruzzo di qualche anno addietro. Da sette anni gli acquedotti sono di nuovo a norma, ma il disastro ambientale della discarica di Bussi continua.

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L’inchiesta per questo maxi-inquinamento, che al momento riguarda 19 persone, ha come capo d’accusa il modo in cui è stato gestito l’inquinamento delle falde. “Le acque contaminate dei pozzi”, continua Damiani, “sono state diluite con le acque pure delle sorgenti del fiume Giardino. In questo modo la concentrazione delle sostanze inquinanti è stata ridotta fino a farla rientrare nei limiti di legge”. Peccato che, sempre secondo la legge, sia illecito sia diluire acque inquinate e mandarle consapevolmente negli acquedotti, che mantenere la popolazione all’oscuro di tutto, evitando di comunicare pubblicamente il rischio a cui è sottoposta.

Sulle ripercussioni sulla salute umana mancano ancora dati certi, ma le premesse non sono incoraggianti. “Al momento ciò che abbiamo è un’analisi descrittiva della prevalenza dei tumori della regione Abruzzo”, ci ha chiarito Augusto De Sanctis del Forum Abruzzese dei Movimenti per l’Acqua. “L’indagine non ha esaminato le possibili relazioni di causa-effetto, ma ha mostrato dati preoccupanti sui quali andrebbero sicuramente svolti approfondimenti”. Nel redame  si conclude che “la distribuzione geografica della prevalenza di tumori solidi ed ematologici ha permesso di evidenziare alcune aree critiche, nelle quali il tasso standardizzato di tumori è stato significativamente superiore allo standard regionale”, con incrementi mediamente intorno al 20% per il periodo 2006-2011 in cui è stata svolta l’indagine. Nel comune di Bussi, in particolare, la frequenza di tumori rilevata è stata del 70% superiore rispetto alla media abruzzese.

Ma di quali inquinanti si parla in particolare? “Tra le famiglie di sostanze che abbiamo rilevato nella zona”, spiega il direttore tecnico dell’Arta Abruzzo*,”ci sono soprattutto sostanze alifatiche organo-clorurate, e tracce di metalli pesanti. La produzione dell’industria ha scaricato piombo e mercurio. Quest’area, tanto per fare un esempio, è la zona dell’ultima fabbrica europea che ha prodotto il piombo tetraetile per la benzina verde. E poi altri impianti, soprattutto quelli per la produzione di soda caustica, hanno impiegato elettrodi a base di mercurio*”. La concentrazione di mercurio è fortunatamente in diminuzione, perché queste produzioni sono state smantellate e bonificate nel 2008. “Oggi troviamo solo il mercurio residuo. Non c’è più nelle acque di falda, ma solo nei sedimenti e, in tracce, nei mitili esposti alla corrente fluviale”. Quelli, insomma, che si trovano vicini alla foce del fiume Pescara, proprio nel centro della città.

Anche se ora non ci dovrebbe più essere alcun inquinante nelle acque dei rubinetti pescaresi, grazie a nuovi pozzi scavati nel comune di Bussi (a monte della discarica), la questione ambientale è tutt’altro che risolta. “Manca ancora, dopo sette anni dai primi sequestri, la messa in sicurezza della discarica”, denuncia Damiani. “La legge prevede che entro 48 ore dal sequestro venga avviata la messa in sicurezza di emergenza, ovvero l’adozione di tutte le strategie possibili per contenere l’inquinamento e confinare l’area, per procedere successivamente con indagini e caratterizzazioni che servono per valutare come procedere con la bonifica”. Anche se ciascuna area deve essere valutata a sé (la responsabilità su ciascun terreno spetta ai rispettivi proprietari), in generale le azioni intraprese negli ultimi anni sono – per la Procura –  insufficienti.

Per la discarica di Bussi, ad esempio, “fino a oggi è stato fatto solo un capping superficiale”, ossia ci è stato messo un coperchio*,”ma la discarica è ancora per circa tre quarti in ammollo nelle acque del fiume Pescara, che infatti permeano nella zona dove si trovano i rifiuti”. Cosa possiamo aspettarci per il futuro? ”Un risanamento tutto e subito è irrealistico, perché per la fase di bonifica vera e propria potrebbero servire almeno 5-6 miliardi di euro e, anche avendo i fondi, i tempi richiesti sarebbero di alcune generazioni. Quello che si potrebbe fare da subito è la compartimentazione dei rifiuti, perché il contenimento è realizzabile in qualche anno”, e consentirebbe di circoscrivere l’area da bonificare, impedendo che da questa ci siano ulteriori fuoriuscite di sostanze inquinanti. E’ opportuno trovare immantinente un accordo su chi paga, in qual modo ed in quanto tempo, il vitale piano di rimodulazione ecocompatibile per l’intero settore industriale italiano, che non attiene alla mera espulsione di anidride carbonica, ma sopratutto alle scorie chimiche ed allo smantimento accessibile, dei materiali di scarto. Tutto cio’ e’ tanto piu’ ineludbile quanto maggiore risulta la conoscenza diffusa che le tecnologie per non ledere l’ambiente, l’industria, l’erario e le finanze private, oppure le risorse finanziarie per concretizzare il tutto, sono esistenti e gia’ pronte all’uso.

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